Nella primavera del 1968, l’Istituto di Storia dell’Arte dell’Università degli Studi di Parma organizza una grande mostra antologica di 180 opere di pittura e 30 di grafica del giovane Concetto Pozzati.
Alla base delle opere di Pozzati emerge un’ironia contestatoria nei confronti della civiltà del nostro tempo, condizionatrice dell’uomo nella sua vocazione e destino.
Diventiamo segnali, siamo già segnali: l’artista trentatreenne accoglie da direzioni diverse i suggerimenti più bizzarri della cultura e vita moderna, per trasformarli in temi simbolici di una rappresentazione del presente.
È una pittura dinamica di contestazione, in chiave paradossale, venata da un umorismo nero, dove tutto è emblematico e mistificante: la pera, il pomodoro, l’occhio, i bersagli, diventano nel linguaggio dell’artista emblemi metafisici. Il tiro al bersaglio appare superficialmente come un gioco divertente, fino a quando non ci rendiamo conto di essere noi questo bersaglio, di essere noi condizionati dalla modernità artificiosa nella quale viviamo.
Nelle oltre 200 opere esposte nel Salone Farnese è ricorrente l’utilizzo di specchi e vetri ritagliati, ad indicare metaforicamente l’ambiguità dell’immagine: gli oggetti in specchio sono occhio e schermo di cose e dipinti che si pongono di fronte, immagini sopra ad immagini, ma sono anche la vetrificazione del segno.
Nel saggio introduttivo alla mostra, Arturo Carlo Quintavalle scrive: “Pozzati è uno degli artisti maggiormente rappresentativi dell’arte nuova giunto al limite estremo della pittura, cioè alla sua distruzione.” Egli compie quindi “il passo ultimo di questo processo rivoluzionario, che significa l’impossibilità dell’immagine se non nel contesto comunicativo della civiltà del consumo.”