Il fondo Gardella viene acquisito dallo Csac negli anni Ottanta, momento in cui l’Archivio del Progetto iniziava a strutturarsi e al quale lo stesso Ignazio Gardella è stato uno dei primi ad aderire. Seguirono poi le collezioni di Giuseppe Samonà e di Pier Luigi Nervi, vi erano già le opere di Enzo Mari, di Bruno Munari, dei fratelli Castiglioni e di Ettore Sottsass. Il materiale veniva raccolto nella sua interezza, dalla documentazione minore al progetto più importante.
Scrivere del progetto di concorso di Ignazio Gardella per il Teatro di Vicenza (1968) potrebbe significare concentrarsi solo su un oggetto, un plastico in legno apribile, una collezione di disegni, schizzi e documenti. Un’opera non realizzata, infatti, vive nell’archivio dell’autore, attraverso la sua memoria, ma fin dai primi documenti non sembra concludersi nella parola progetto. In questo caso, l’esplorazione dell’archivio ci riporta subito ad un documento, conservato tra i materiali dello studio nella scatola dal titolo “teatro greco” e, come in un racconto di viaggio, ci fa iniziare da una mappa. La forma dell’arcipelago greco. Non ci stupisce trovare poi, piccoli zoom sul terreno di un atlante i disegni che ci mostrano la pianta del teatro di Epidauro e uno schema del teatro greco e romano: vediamo la sagoma in pianta e i disegni in sezione, con la cavea, la gradonata e la scena. Proprio a partire da questi studi sull’architettura del tipo del teatro classico nasce la proposta per Vicenza: un volume quadrato, tagliato sulla diagonale da un corpo stretto e arretrato, con due diverse altezze: da un lato una parte più alta a contenere la torre scenica e il palco (l’oggetto guardato), dall’altro una più bassa con la cavea (lo spettatore).
Il progetto di questo teatro entra a far parte della riflessione sull’osservare che unisce tra loro i maggiori esempi: tra le foto dell’autore troviamo infatti quella di un occhio. Memoria e analogia di un panopticon settecentesco, di un progetto realizzato di Claude-Nicolas Ledoux, il Théâtre de Besançon. Gardella sceglie una fotografia del suo occhio per proiettare nella pupilla l’immagine di un paesaggio naturale a sottolineare l’importanza della relazione visiva che lo spettatore stabilisce con la scena: uno sguardo sul reale o sulla natura, esattamente come avviene dalla cavea di un teatro classico. Un frammento e un indizio di un progetto non realizzato che ci consegna una dichiarazione di poetica architettonica.
Maria Chiara Manfredi