Alessandro Mendini. Archivio e utopia
Maestro di umanità, cultura e gentilezza – come ricorda “Abitare” – generoso, amico, compagno di viaggio nella creatività, grande maestro di vita e di progetto, le parole presenti sul “Corriere della Sera”. Tratti veloci disegnano un volto sorridente, brillante, pronto a insegnare e ad ispirare, un uomo amato.
Di che cosa altro necessita in primo luogo la cultura del progetto se non di ispirazione? Di modelli, di forme, di esempi, di tipi, nuovi e antichi, di maestri? Una cultura progettuale italiana che ha per fondamento l’insegnamento. Dove ritrovarlo ora che molti dei nostri grandi maestri non disegnano più, non raccolgono più i loro schizzi in faldoni a cui incollare etichette che con il tempo spariscono dalla memoria degli autori stessi? È nel loro archivio che la forma della cultura si ripresenta.
Ricordo la visita di Mendini allo CSAC, dove trova casa una parte del suo archivio[1], dopo la conferenza Prove di utopia, quando il designer venne positivamente colpito dal rivedere i suoi disegni ordinatamente riposti nei cassetti d’archivio. Sorpreso, sorridente, entusiasta, felice che la cultura a cui lui stesso aveva dato forma non fosse dispersa e lontana e fosse, invece, tangibile, organizzata e conservata, visibile in trasparenza nei fogli leggeri e nelle sperimentazioni del passato.
Nell’estate dello scorso anno, a proposito della ricerca di dottorato che ho condotto presso lo CSAC ho chiesto ad Alessandro Mendini (e alla gentilissima Beatrice Felis) se poteva rispondere via email a qualche domanda sul tema “archivio”, un argomento sul quale si è a lungo dibattuto in questi anni con innumerevoli interpretazioni e contributi. Si è aperto così un interessante spiraglio sulla sua personale idea di archivio. Con Mendini il punto di partenza del dialogo ha riguardato nello specifico il caso dell’archivio CSAC, luogo dove hanno avuto inizio, per me, questi interrogativi. Riporto qui, inedite, le “domande-risposte”, che hanno di certo contribuito ad allargare i miei orizzonti e sono, credo, una bella testimonianza.
Il Centro Studi e Archivio della Comunicazione dell’Università di Parma unisce in una raccolta il disegno d’architettura, il progetto di design, di moda, di grafica, il progetto della scultura, sotto il grande mantello dei “materiali e progetti della comunicazione”. Cosa pensa di archivi “eterogenei” come lo CSAC rispetto ad archivi specializzati su architettura o design? La struttura secondo la quale prende forma un archivio non è forse importante per lo sviluppo della conoscenza così come la struttura di una biblioteca?
A.M. Evidentemente esistono gli Archivi monotematici e quelli politematici. Tutto dipende dalle situazioni e dalle intenzioni. Il CSAC è nato sul principio della comunicazione, e pertanto ha una formula aperta a ventaglio invece che essere monodisciplinare. Per mia vocazione questo tipo di apertura è molto fertile, l’interscambio fra discipline e metodi favorisce il flusso di energia. L’eterogeneità è un valore, anche se è difficile da gestire.
Cosa accomuna e rende interessante il rapporto tra l’archivio e la sua esposizione?
Da una parte abbiamo lo strumento effimero ma attuale dell’esposizione, nato per terminare.
Dall’altra i documenti, un insieme di idee già compiute ma ancora visibili, riunite per durare nel tempo.
A.M. Un archivio ha senso non solo per la conservazione e la classificazione delle opere, ma se viene reso visibile al pubblico. Più importante e completo è l’archivio, più interessanti, precise e mirate saranno le mostre, le pubblicazioni e le manifestazioni che lo rendono attivo e ossigenato. La “mostra da archivio” è sempre un atto di informazioni specializzate, una fonte di scoperte, di inediti, di precisazioni. Naturalmente la qualità e l’importanza di un archivio sono proporzionali alle qualità delle opere raccolte.
Possono gli archivi trasformarsi in un luogo di dialogo per l’introspezione e quindi per la creazione del nuovo?
Cosa vorrebbe che diventasse il suo archivio? Un luogo di esplorazione per gli storici del progetto o per i progettisti?
A.M. L’archivio è un luogo di documenti, e può essere fruito in vari modi dagli storici e dai progettisti. Già ne comprendo la complessità solo pensando al mio stesso archivio, diviso fra il mio studio ed alcune istituzioni ufficiali, fra le quali il CSAC. L’archivio di un progettista è un grande documento che comprende i lavori, gli umori, le attitudini, i passaggi temporali di una vita di lavoro. Sistematizzare questa cosa per gli studiosi interessati è il goal del mio archivio.
C’è un bellissimo lavoro di Luigi Ghirri che abbiamo allo CSAC, Atlante, che raccoglie estratti fotografati di cartografie in cui si inquadra una parte di territorio. Trova interessante la metafora cartografica applicata all’archivio?
A.M. L’Atlante di Luigi Ghirri posseduto dal CSAC è un’opera importante. Sì, il viaggio dentro agli elenchi di un archivio è come il viaggio in un arcipelago di isole culturali. La metafora cartografica di Ghirri è bella e pertinente.
Le Utopie di Alessandro Mendini sono utopie di tutti i tempi, di ogni “vita di lavoro” racchiusa in un archivio. L’esistenza di figure come la sua, “flussi di energia” che rimangono sulla superficie dei fogli animando ogni materiale, sono il più prezioso confronto che un progettista può avere, la risposta più significativa, lo spunto per procedere sorvolando ogni ostacolo.
Ci piace immaginare così di sorvolare anche “l’arcipelago” dei fogli e delle opere di Mendini, guardando dall’alto quelle che lui ha definito le sue “isole culturali”, le forme dei territori che ha definito e creato. Possiamo sorvolare le sue opere, i suoi suoi disegni e schizzi, per osservarne la configurazione in mappe, nuovi territori, possibili percorsi, portando il nostro quotidiano lavoro a una quota più alta, quella delle utopie che si possono costruire a partire dall’archivio e dai suoi miraggi.
Chiara Manfredi
[1]Le opere conservate nel Fondo Mendini sono circa 988 tra le quali schizzi, collage, lucidi e fotografie realizzate tra il 1950 ed il 1982.